Blackout Rugby Terzo Tempo. Il rugby in Galles visto da un italiano

Dal nostro corrispondente dal pianeta BR Menono

BLACKOUT RUGBY TERZO TEMPO

Il rugby in Galles. Ovvero come imparare a fregarsene di tutto il resto e buttare giù litri di ale.

In Italia c’è un pubblicità che ha come slogan “tutto intorno a te”. Ecco, probabilmente se qui lo sapessero, lo adotterebbero come motto, come preghiera prima di cena, come frase per S. Valentino. Intorno a chi? Al rugby, naturalmente.

La parafrasi iniziale del titolo di un famoso film non è affatto un esercizio di stile o un atto d’amore nei confronti di Peter Sellers e Stanley Kubrick. Tutt’altro. Il rugby infatti è uno sport di contatto, quindi pericoloso; ma che allo stesso tempo esercita un irresistibile fascino, sia per chi lo vive in prima persona, sia per chi si limita ad osservarlo. Così ho pensato che come il povero Peter Sellers con l’atomica, anche molti appassionati di rugby ne siano allo stesso tempo innamorati e un po’ spaventati.

Del resto, il mio primo approccio col rugby gallese non è stato molto fortunato. Un bel sabato pomeriggio di sole, uno dei primi dal mio sbarco sull’isola, incuriosito dal basso numero di persone che si godevano il lungomare assolato, mi sono fermato a chiedere al giornalaio vicino casa il perchè di tale spreco: “Aber plays today”. Eccoli dov’erano andati tutti: allo stadio. E nessuno mi dice niente?

Certo chiamarlo stadio è davvero una parola grossa. Poche file di seggiolini coperte da una tettoia-groviera. Per altro vuote. Ah eccoli dove sono. La club house. Monitors ovunque, bambini ovunque. Sembra una festa patronale, più che una partita di rugby. La partita comincia. La gente è assiepata ai bordi del campo. Frotte di bambini si giocano la loro di partita, completamente disinteressati del rugby vero. Del resto, alla loro età, come biasimarli. Ed ecco lì, il lato oscuro del rugby, quello che ti spaventa un po’. Ambulanza in campo, gioco sospeso per una decina di minuti. Il poveraccio s’è fatto male sul serio. Quindi che si fa. Si entra in club house e ci si fa un’altra pinta. Altro aspetto del rugby, decisamente più piacevole. Del resto anche questo è rugby no? Il ragazzo si riprenderà. Amen.

Ma la mia vera attesa era il 6 Nazioni. Chissà come sarà viverlo nella patria del rugby, mi chiedevo. Non vedevo l’ora arrivasse febbraio. Ma non avrei dovuto aspettare così a lungo per avere una risposta. Da vero sportivo infatti, mi preparavo ad un altro match, Italia-Irlanda, questa volta calcio però. Ignaro della sorte che mi attendeva, m’incammino verso il mio pub di fiducia per vedermi la partita insieme ad iberni colleghi. “Sorry, it’s Magners League tonite”. “Fair enough” direte voi: la serie A di rugby britannico val ben una qualificazioni ai mondiali di calcio. Frustrato, al terzo tentativo mi dirigo verso il pub più fatiscente e meno affollato del paese, speranzoso di gustarmi un po’ di sano football. Ma quando anche al Cooper Arms mi hanno negato un TV, perchè due autoctoni anzianotti dovevano guardarsi l’equivalente di Castrovillari-Lastra a Signa, serie indefinita del campionato locale di rugby che nemmeno i parenti dei giocatori si prendo la briga di guardare, ho perso le speranze. Questo è il Galles. Questo è il rugby in Galles.

Poi è arrivato davvero il 6 Nazioni. E ho scoperto in prima persona, la simbiosi vitale tra sport e alcool, in particolare tra rugby e birra. Non che non ne fossi a conoscenza, ma ne ho scoperto un nuovo approccio. Ovvero ho imparato che la partita è tutto sommato un ottimo pretesto per stare insieme, ma fare la fila al bancone per prendere birra per tutti è ben altro e importante affare!

Per quanto ho potuto vedere ora, questo è il rugby in Galles. Un ritrovo per famiglie e bambini per godersi un sabato pomeriggio di sole. Un arbitrario e inflessibile monopolio su qualsiasi genere di altro evento sportivo. Un buon motivo per cantare insieme l’inno della propria nazione  offrendosi pinte e scambiandosi pacche sulle spalle.

Una cosa sola non ancora capito. Da dove venga tutto ciò. “Gli inglesi giocano al rugby perchè l’hanno inventato. Gli scozzesi perchè odiano gli inglesi. Gli irlandesi perchè non sanno stare lontano da una rissa. I gallesi…beh, perchè dicono che sia nel loro DNA…

Questo non credo potrò mai appurarlo. Ma aspettate il 20 di marzo. Almeno da quel giorno, saprò darvi qualche indizio in più sull’attendibilità di quel popolare adagio.

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